martedì 23 giugno 2015

Dove sono le mie recensioni?




Un paio di mesi fa, in questo post, facevo l’ipotesi che probabilmente la stragrande maggioranza di quelli che scaricano ebook in offerta gratuita, poi, questi ebook non li leggono. Sostenevo questo perchè avevo ottenuto molti download durante i periodi in cui le mie storie erano in offerta gratuita, ma pochissime recensioni. In quell’occasione, un utente, con un commento, mi aveva fatto notare che magari il fenomeno si verificava non perchè chi scarica ebook gratuiti non li legge, ma perchè questi lettori hanno una coda di lettura molto lunga. Lui stesso, il lettore che commentava, aveva una coda di moti ebook, che avrebbe letto con calma e poi recensito. Be’, ho risposto io all’epoca, potrebbe proprio essere così, e c’è anche un metodo facile facile per scoprirlo, basta aspettare. Oggi, a distanza di mesi, la situazione è la stessa. Ho ricevuto una recensione, nel frattempo, sul racconto al quale mi riferivo nel vecchio post. Come numeri stiamo parlando di duecento e passa download gratuiti e quattro recensioni che non ho modo di sapere se provengono da letture di copie a pagamento o gratis. Certo, la non-recensione non è prova che l’ebook non è stato letto. Molte persone non hanno l’abitudine di recensire la roba che leggono. Non hanno tempo, non hanno voglia, non gliene frega niente, o semplicemente non ci pensano. Io stesso, che la meno spesso e volentieri con la storia dell’importanza delle recensioni, non recensisco tutto quello che leggo. Mi sforzo di fare il massimo, questo sì, come spiego qui, seguendo delle linee guida che credo siano utili, ma non recensisco proprio tutto. Con la mia ultima pubblicazione sta succedendo la stessa cosa, molti download gratuiti durante la promozione e una sola recensione. È vero, nel caso di Prega il tuo dio è passato poco più di un mese, è un po’ presto per fare resoconti, però l’impressione resta quella che la massa dei lettori che scaricano roba gratis, poi non la legge.È ovvio che non è così per tutti. Io ho scaricato roba gratuita e l’ho letta. Il mio amico Fabio  fa lo stesso, lo so per certo. La maggior parte però, no, è evidente, altrimenti su centinaia di copie scaricate credo che qualche recensione in più arriverebbe. O no?Farebbe comodo avere un’idea più o meno chiara del rapporto statistico che c’è tra copie scaricate e recensioni ricevute. In rete non ho trovato dati precisi. In un ottimo manualetto intitolato Il Tao e la top 100 di Amazon di Davide Mana, letto qualche giorno fa, l’autore sostiene che soltanto il 10% delle copie scaricate gratuitamente viene letto e di questo 10 solo l’1-2% viene recensito. Quindi la percentuale di recensione su copie gratuite sarebbe una o due su mille. A me sembra poco. Soltanto una persona su mille scrive una recensione? Mi sembra davvero poco, però...diciamo che le mie esperienze, nonostante in apparenza le percentuali mi sembrino troppo basse, tendono a confermare queste percentueli.  In conclusione non ho soluzioni, ragiono su queste cose solo per cercare conferme o smentite.




martedì 16 giugno 2015

Faccine di merda





Non userò mai le faccine. Intendo le faccine che si mettono in fondo alle frasi, gli smile, gli emoticon quelle inutili, futili, ingannevoli faccine.
Le faccine sono una bastardata. Sono fuorvianti e mescolano le carte di una conversazione, sui social, su un forum o dove capita. 
Quando parlo con qualcuno, di persona intendo, faccia a faccia, ho la situazione sotto controllo. Vedo le reazioni sul volto del mio interlocutore in tempo reale e molto bene, in modo chiaro, almeno che non abbia due decimi di vista. Se questo s’incazza m’accorgo. Se fa ironia pure, se è sarcastico, se s’offende, se mi sta cacciando balle a tutto spiano, se mi sta prendendo per il culo, se è stufo, se è annoiato, anche se cerca di dissimulare me ne accorgo, o almeno ho la possibilità di farlo. 
In una conversazione virtuale no. In una conversazione virtuale non ho la possibilità di sapere, di scoprire tutto questo. In una conversazione virtuale in rete, ossia scritta, l’unica cosa che fa trasparire un po’ di emozioni, poche, è la scrittura stessa. Dalla scrittura, dal modo in cui uno scrive, si può intuire quale sentimento ci sia in ballo in quel momento. Astio, felicità, rabbia, noia, scazzo, è difficile, più che dal vivo , ma un piccolo margine c’è. Di fronte a una battuta farcita da quelle belle faccine di merda invece, tutte le carte in tavola vengono cambiate. Tutto diventa ambiguo. Uno può mandarti affaculo e piazzare una bella faccina di cazzo che ride in fondo all’insulto per stortare il significato dell’espressione. E uno resta lì, c’è lo smile, quindi è tutto pacifico, però si ha l’impressione di essere appena stati mandati affanculo. Qualsiasi giudizio può venire falsato, basta metterci la faccina. La discussione si fa accesa, e a suon di faccine non si capisce più un cazzo di niente. Il massimo è quando si mette solo la faccina, senza aggiungere niente, sia essa ridente o triste o quello che è. Quello è la vetta della falsità. 
Oramai non ci si fa più caso. Non ci faccio più caso quasi nemmeno io. Però, se ci rifletto, odio le faccine.
Certo, a mettercisi d’impegno, si potrebbe tentare di estrapolare dei significati stabili anche dall’uso delle faccine di merda, un vero e proprio linguaggio. Il problema è che è una piccolezza, fredda, molto limitata, la faccina, il che rende una ricerca del genere molto complicata.
Insomma, le faccine di merda sono delle scappatoie per nascondere le proprie intenzioni, comode, efficaci. Prendere per il culo uno dal vivo, senza che questo se ne accorga, richiede una certa maestria, di più o di meno in base alla maestria dell’altro nell'accorgersene, ma comunque richiede talento. Le faccine di merda no, annullano il talento, e annullano la genuinità della conversazione.
Ecco perchè non userò mai le faccine di merda.

martedì 9 giugno 2015

Io scrivo le parolacce



È giusto, quando si scrive, fare uso delle parolacce? Credo di sì. Io lo faccio. Raccontare una storia, realistica o fantastica che sia, vuol dire sempre raccontare la realtà, e la realtà è piena di parolacce. 
Fare uso abbondante di parolacce non è di certo una novità. Ci sono scrittori che hanno fatto del linguaggio scurrile una vera e propria bandiera, loro malgrado. Mi vengono in mente Bukowski o Irvine Welsh. Ma ce ne sono molti altri, chi più chi meno, Lansdale, King, non voglio stare qui a fare un elenco. Il cinema poi, da Tarantino in poi, ha sdoganato la scurrilità in modo definitivo. Perciò la parolaccia nel testo scritto non ha più nessun valore innovativo. La parolaccia fa semplicemente parte della vita reale che viene costantemente descritta nelle storie che si scrivono. Quindi va utilizzata. 
Spesso mi capita ancora di leggere espressioni come “cosa diavolo succede” o “dannato telefonino, non prende” quando un “che cazzo succede” o “sto cazzo di telefono non prende” sono molto più realistiche e appropriate. Certo, conta il contesto, ma io vorrei tanto sapere in quale contesto uno possa trovarsi a dover dire cosa diavolo succede. Piuttosto uno non dice niente. 
Per quel che riguarda i dialoghi non c’è scusa, se c’è l’imprecazione dev’essere per forza a suon di parolacce.
Se si parla invece di voce narrante allora la faccenda è un po’ diversa ma neanche tanto. Chi è il narratore? Non è uno che racconta? Va bene, nel caso del narratore onnisciente non è esplicitamente una persona fisica. Ma è pur sempre una voce figlia del tempo di cui narra, a parte eccezioni che devono essere specificate. Il narratore non è un gentiluomo dell’ottocento (ammesso che i gentiluomini dell’ottocento parlassero davvero come i gentiluomini dei romanzi dell’ottocento) ma è uno qualunque dell’epoca in cui è ambientata la storia. E allora? O si limita a narrare i fatti in modo distaccato, narratore esterno, allora non avrà mai occasione di dire niente di suo, oppure “parlerà” e allora le parolacce mi sa tanto che ci debbano scappare.
Non utilizzare le parolacce non è giusto. Confonde le carte. Quando uno scrive deve dire la verità, e se è logico aspettarsi le parolacce, le parolacce devono arrivare. 
Il problema è capire quando è logico aspettarsi le parolacce. È il problema sì, ma di facile risoluzione. Basta riprodurre esattamente le cose come sarebbero dal vero. Il mio personaggio quarantenne va in posta e l’impiegata quando è il suo turno gli chiede cosa deve fare? Lui risponderà che deve spedire una raccomandata. Una volta uscito però, dopo mezzora in fila dietro vecchi che tossivano, incontrando un suo amico alla domanda cosa fai qui? Risponderà che è andato a spedire una cazzo di raccomandata di merda. 
Insomma, le parolacce fanno parte della nostra cultura, e vanno messe, a testa alta, dove è giusto che ci siano. 





mercoledì 3 giugno 2015

Le migliori facce della storia del cinema

Ho sempre avuto la fissa per le facce. La gente fa in continuazione facce di tutti i tipi, in modo più o meno volontario. Spesso le facce sono indicatrici più di mille parole, non credete?
Sono un cultore delle facce e nei film di facce ce ne sono una marea. Ah, per faccia intendo una cosa tipo: “ehi, non ti piace il budino? Fai una faccia”. Oppure : “come l’ha presa? Ho visto che aveva una faccia”. Insomma la faccia. 
Qui ho elencato quelle che secondo me sono le migliori facce della storia del cinema. Ovviamente ce ne sono tantissime, una più importante dell’altra, ma queste per me sono le migliori.
Di proposito non ho messo foto o video delle facce in questione, perchè per apprezzarle vanno viste nel film intero.
Sono un semplice appassionato, non ho competenze tecniche oltre quelle che si possono sviluppare godendosi migliaia di film, perciò, tutto quello che dirò qui sotto, potrà essere deriso dagli espertoni. 


Al quinto posto...

Forse l’attore migliore di tutti i tempi è Jack Nicholson. Di sicuro è uno tra i migliori di sempre, di sicuro a qualcuno farà schifo, perchè è esagerato, sempre all’eccesso, con la faccia da schiaffi. Nessuno però potrà mai dire che non è un grande attore. Secondo me è il più grande di tutti. Ed è sua la prima faccia che prendo in considerazione in questo piccolo olimpo delle facce. 
Shining. Gran film, gran regista, grande storia, grande protagonista. Un cult. La faccia in questione è quella che il buon vecchio Jack ci appioppa nel punto esatto di svolta del film: Jack Torrance impazzisce. Jack sta da solo nel salone, gioca con la pallina, non scrive niente di niente a parte quella filastrocca. E a un certo punto impazzisce, cade vittima dell’albergo, e lo esprime con una faccia da antologia, stanca, sfatta, atona, ma con un guizzo ottuso e nascosto che fa venire la pelle d’oca. Con un’unica espressione Jack riassume tutto il film. Il film, alla fine, non è altro che quell’unica faccia, malata e perversa come l’Overlook. 




Al quarto posto...

Qui le facce in realtà sono tre. Appartenenti a due film diversi e a tre donne. 
Thelma e Louise e Million dollar baby. Le metto alla pari perchè non so decidermi. 
Geena Davis e Susan Sarandon sulla macchina, ferme nella sabbia prima di partire verso il precipizio. Due donne sfinite, ben oltre il punto di non ritorno, senza più nulla se non la loro amicizia. Quelle facce polverose, sudate, sorridenti, gli occhi luminosi. Stanno per fracassarsi nel Gran Canyon, gente, e ti piantano lì quel sorriso triste e felice, che tutte le volte che vedo il film mi fa disperare. Si guardano e dalle loro facce sprizza fuori tutta la stanca e gloriosa tragedia. 
Hilary Swank in palestra mentre il Grande Vecchio, ottantacinquenne tre giorni fa, accetta di allenarla dettando le sue regole. Un sorriso enorme che tenta d’essere trattenuto, ma non ci sta proprio in bocca. L’immagine della felicità. La felicità intera, di tutti i bambini la mattina di Natale messa dentro una sola faccia. È per questa faccia qui che Hilary ha vinto l’Oscar.
Tre grandi attrici, mai arrivate in cima, sempre un passo indietro le star assolute, belle soltanto da ubriachi, ma fenomenali.





Al terzo posto

Finalmente un film italiano. Fellini? Monicelli? No, Aldo, Giovanni e Giacomo. Allora sarà Tre uomini e una gamba. No, La leggenda di Al John e Jack. La scena del compleanno di Jack. La faccia che riesce a piazzare Giacomo constatando che Giovanni gli ha regalato un libro del Carabbaggio invece dei colpi della pistola è arte pura. Non so pensare a niente di fatto meglio, nella sua brevità, nella sua fissità perfetta. Ho sempre considerato Giacomo il più attore dei tre, il più disinvolto, ma qui supera ogni possibile bravura. Certo, non trasmette altro che il disappunto zotico di un analfabeta, ma te lo trasmette dritto in mezzo agli occhi come un cazzotto. 






Al secondo posto...

Rayan Gosling ha avuto un momento in cui sembrava dover sfondare qualsiasi cosa si potesse sfondare. Due o tre anni fa, più o meno. Poi s’è un po’ fermato. Di sicuro è un bravissimo attore e la massima espressione di questa bravura la dimostra in Drive, di Nicolas Winding Refn. Gran regista, tanto per precisare. 
La scena dove si può apprezzare la faccia è quella della rapina al banco dei pegni. La rapina va storta, Standard viene colpito mentre torna alla macchina. Quando viene esploso il secondo colpo e Standard crepa in mezzo al piazzale, Gosling fa una faccia che con una leggera smorfia riesce a descrivere l’intero personaggio e forse anche il film. Il pilota, Drive, il protagonista insomma, è un disadattato, un disperato, arrivato da chissà dove, cresciuto chissà in quale degrado sociale, senza famiglia, senza niente. Cerca di risalire, cerca di ritagliarsi un posto nel mondo, lavorando, sgobbando, e “arrotondando”, sfruttando quello che sa fare meglio. Questo pilota non è Jason Statham, non è il solito solitario senza passato che prende a botte tutti quelli che lo guardano storto. No, e tutto è contenuto in quell’espressione. Gosling ha paura, si spaventa, ha uno scatto terrorizzato. Nella fissità imposta dalle caratteristiche del personaggio riesce a mettere mille sfumature. La paura, la fragilità umana atipica per il genere, la presenza di spirito, la velocità di ragionamento, difetti e pregi di una persona “normale”, l’istinto d’autoconservazione sconosciuto a molti duri del cinema. Questo pilota le cose se le suda, non gli vengono da una supremazia misteriosa o da caratteristiche spinte all’eccesso. E tutto sta dentro quell’unica faccia tesa.



Al primo posto

Per qualche dollaro in più. Forse il più equilibrato tra i tre della “Trilogia del dollaro”. Trilogia che, giratela come volete, ha cambiato il cinema. Prima John Wayne se la rideva sparando minchiate con uno stivale appoggiato su una sedia e cavalcava sparando e ricaricando i due fucili facendoli roteare. Poi... Sergio Leone ha fatto vedere come poteva essere un film innovativo, moderno, e tutti l’hanno copiato. Esiste un prima Sergio Leone, e un dopo Sergio Leone. Qualcuno ogni tanto tira in ballo Sam Peckinpah, ma gente, Peckimpah è bravissimo, ma i suoi film migliori sono posteriori alla Trilogia e poi, scusatemi tanto, il suo stile non l’ha seguito nessuno. 
Il colonnello Douglas Mortimer corre dietro all’Indio per tutto il film e alla fine lo trova. Lo stana, letteralmente, sfoltendo insieme al “ragazzo” tutta la gentaglia che lo circonda. Soltanto che l’Indio è come Ramon, l’Indio è Ramon, per tutti i ragazzini che sono cresciuti idolatrando questi film, ossia è uno che meglio farselo amico. Il vecchio Mortimer si fa fregare come un pivello e l’Indio lo disarma. Eh sì. Tutta la fatica per trovarlo, i pericoli, la strategia, io dall’interno tu dall’esterno, tutto buttato nel cesso. L’indio apre il suo bell’orologio rubato e pronuncia la frase: “quando la musica finisce cerca di sparare, cerca”. E il colonnello Mortimer se ne resta lì, la pistola a qualche metro, nella polvere, il fucile dell’Indio puntato contro, il ghigno malsano e puzzolente di Volontè dritto davanti. 
L’Indio è lo scopo di vita del colonnello. Mortimer vive per far fuori l’Indio, ha fatto di tutto per trovarsi nella condizione di poterlo fare fuori, per vendicarsi. L’Indio ha ammazzato la sorella del colonnello, anzi, peggio, la sorella s’è sparata mentre l’Indio la violentava nel suo letto, dopo aver ucciso il fidanzato. E Mortimer vuole vendetta. Ce l’aveva quasi fatta, era ha un millimetro, e in un attimo la situazione è precipitata e si ritrova nella merda più nera. Non solo morirà, quello è il meno, ma non riuscirà vendicarsi, non eliminerà il suo nemico e quello anzi se la riderà ancora, soddisfatto, unto, sudato, vincitore per l’ennesima volta. Mortimer ha perso, ha fallito, è tutto finito. E noi, sullo schermo vediamo tutto questo dipinto sul volto di un Lee Van Cleef eccezionale, immenso nel mostrare tutta la disperazione che si possa immaginare. Un uomo distrutto, esterrefatto, al quale è stata tolta l’unica speranza, tuttavia dignitoso, duro come la roccia, inamovibile nella desolazione. La musica di Morricone tira coltellate nello stomaco, e la musica non è altro che la disperazione del colonnello.
Poi va be’, sappiamo tutti come va a finire.